Oggi ci occupiamo di un argomento
piuttosto interessante, ma con risvolti inquietanti. Ci insegnano fin dalle
facoltà di legge che la sentenza è il provvedimento tipico del giudice, colui
che esercita il potere giudiziario. Ci insegnano anche che essa è caratterizzata
dalla motivazione, cioè dal ricollegare a certi fatti un percorso
logico-giuridico giustificativo della decisione. La decisione, cioè, che dirime
una controversia giudiziaria, viene assunta collegando ad una norma la premessa
minore di un sillogismo consistente sostanzialmente in un fatto storico. Questo
processo deduttivo, in buona sostanza, rende manifesto un meccanismo presente
in tutti gli ambiti della conoscenza. Fin dalla filosofia Scolastica, le
migliori teorizzazioni della logica aristotelica in ambito cristiano mettono in
luce una articolazione complessa di categorie, con le quali il logico si
cimenta e che servono a fondare il ragionamento discorsivo. In questi giorni,
tuttavia, apprendiamo dal Legislatore, il fantomatico “deus” che crea le leggi
e di cui bisogna interpretare le intenzioni che la motivazione, non è più
elemento necessario di una sentenza, ma è un elemento del tutto accessorio,
addirittura “a pagamento”. Ciò significa che la legalità prevale, pur
ritenendosi superata l’argomentazione kelseniana, sulla giustizia del caso
concreto. Se, infatti, postuliamo che per giustizia debba intendersi una
decisione “giusta” perché “motivata”, nel momento in cui il Legislatore opta
per una motivazione a pagamento, che viene espressa dal Magistrato
esclusivamente su richiesta e previo pagamento di un “contributo unificato”, ci
troviamo di fronte ad un ostacolo insormontabile: viene meno l’ordine
giudiziario, perché viene meno la sua funzione propria. Il dibattito sul diritto
positivo si riaccende e ancora una volta nella storia riemerge quella
dialettica tra diritto naturale e diritto positivo, tra legge e giustizia, che
si riteneva superata nella democrazia matura. Ma forse, è già un ossimoro
parlare di democrazia “matura”. Può infatti una democrazia avere uno stadio
infantile e poi, successivamente, un
percorso evolutivo? Si pensava di sì, ma gli ultimi drammatici approdi
del Legislatore mettono in dubbio tutto ciò. Come muoversi, quindi, in un
paradigma economicistico, il quale subordina tragicamente le esigenze di
giustizia a quelle di bilancio? E’ la giustizia "opzionale" in uno Stato moderno?
Sono domande che devono fare riflettere. In effetti, il problema di base è che
l’immobilismo della democrazia oligarchica crea situazioni di stallo talmente
consolidate, che neppure la minoranza organizzata di cui ci raccontava Gaetano
Mosca riesce a scalfirle. Si preferisce, invece, intaccare la legalità,
intaccare i principi fondamentali dello Stato di diritto, se questo comporta un
“risparmio di spesa”. Non si vorrebbe, però, che questo fosse il primo e
devastante approdo a cui conducono quelle filosofie basate sull’analisi
economica del diritto, sviluppatesi negli Stati Uniti e che comportano la
equivalenza tra scelta giusta e scelta “più economica”. Anche un bambino,
infatti, saprebbe dare la risposta di base: lo Stato che non motiva le sentenze
giudiziarie non è uno Stato di diritto, è solo un’organizzazione economica. Ma
tant’è. Proviamo a riflettere, però, sul percorso che ha fatto la comunità
occidentale nell’epoca moderna. Galileo non ha insegnato niente? Il
giusnaturalismo non ha lasciato alcun segno? Quello che conta sembra essere
solo che si invoca il meccanismo della “legalità formale” per giustificare ogni
scelta, anche quella antigiuridica. Beninteso, nel rapportarsi di alcuni
ordinamenti tra di loro, esiste questo fenomeno di relazione: non sempre si
verifica una sovrapposizione esatta tra norme. Pensiamo al diritto canonico, nei
suoi rapporti con lo Stato: non sempre, infatti, la norma canonica o la norma
dell’ordinamento ecclesiale è in accordo perfetto con la norma positiva. Ma il
punto è quando lo stesso Stato positivo, attraverso una equivoca “deregulation”,
decide di smontare i suoi fondamenti per andare incontro ad esigenze di spesa.
Ciò significa che non esiste un vero conflitto tra norme, bensì il conflitto è
tutto interno allo Stato, è uno Stato che sceglie la via di una
disarticolazione rivolta verso se stesso, un’operazione che consente in
sostanza di mercificare alcuni principi su cui esso stesso si fonda, per
mantenere l’equilibrio sociale esistente. Ha forse vita lunga uno Stato del
genere?
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