sabato 21 dicembre 2013

Motivazione e nessi causali: una storia





Oggi ci occupiamo di un argomento piuttosto interessante, ma con risvolti inquietanti. Ci insegnano fin dalle facoltà di legge che la sentenza è il provvedimento tipico del giudice, colui che esercita il potere giudiziario. Ci insegnano anche che essa è caratterizzata dalla motivazione, cioè dal ricollegare a certi fatti un percorso logico-giuridico giustificativo della decisione. La decisione, cioè, che dirime una controversia giudiziaria, viene assunta collegando ad una norma la premessa minore di un sillogismo consistente sostanzialmente in un fatto storico. Questo processo deduttivo, in buona sostanza, rende manifesto un meccanismo presente in tutti gli ambiti della conoscenza. Fin dalla filosofia Scolastica, le migliori teorizzazioni della logica aristotelica in ambito cristiano mettono in luce una articolazione complessa di categorie, con le quali il logico si cimenta e che servono a fondare il ragionamento discorsivo. In questi giorni, tuttavia, apprendiamo dal Legislatore, il fantomatico “deus” che crea le leggi e di cui bisogna interpretare le intenzioni che la motivazione, non è più elemento necessario di una sentenza, ma è un elemento del tutto accessorio, addirittura “a pagamento”. Ciò significa che la legalità prevale, pur ritenendosi superata l’argomentazione kelseniana, sulla giustizia del caso concreto. Se, infatti, postuliamo che per giustizia debba intendersi una decisione “giusta” perché “motivata”, nel momento in cui il Legislatore opta per una motivazione a pagamento, che viene espressa dal Magistrato esclusivamente su richiesta e previo pagamento di un “contributo unificato”, ci troviamo di fronte ad un ostacolo insormontabile: viene meno l’ordine giudiziario, perché viene meno la sua funzione propria. Il dibattito sul diritto positivo si riaccende e ancora una volta nella storia riemerge quella dialettica tra diritto naturale e diritto positivo, tra legge e giustizia, che si riteneva superata nella democrazia matura. Ma forse, è già un ossimoro parlare di democrazia “matura”. Può infatti una democrazia avere uno stadio infantile e poi, successivamente, un  percorso evolutivo? Si pensava di sì, ma gli ultimi drammatici approdi del Legislatore mettono in dubbio tutto ciò. Come muoversi, quindi, in un paradigma economicistico, il quale subordina tragicamente le esigenze di giustizia a quelle di bilancio? E’ la giustizia "opzionale" in uno Stato moderno? Sono domande che devono fare riflettere. In effetti, il problema di base è che l’immobilismo della democrazia oligarchica crea situazioni di stallo talmente consolidate, che neppure la minoranza organizzata di cui ci raccontava Gaetano Mosca riesce a scalfirle. Si preferisce, invece, intaccare la legalità, intaccare i principi fondamentali dello Stato di diritto, se questo comporta un “risparmio di spesa”. Non si vorrebbe, però, che questo fosse il primo e devastante approdo a cui conducono quelle filosofie basate sull’analisi economica del diritto, sviluppatesi negli Stati Uniti e che comportano la equivalenza tra scelta giusta e scelta “più economica”. Anche un bambino, infatti, saprebbe dare la risposta di base: lo Stato che non motiva le sentenze giudiziarie non è uno Stato di diritto, è solo un’organizzazione economica. Ma tant’è. Proviamo a riflettere, però, sul percorso che ha fatto la comunità occidentale nell’epoca moderna. Galileo non ha insegnato niente? Il giusnaturalismo non ha lasciato alcun segno? Quello che conta sembra essere solo che si invoca il meccanismo della “legalità formale” per giustificare ogni scelta, anche quella antigiuridica. Beninteso, nel rapportarsi di alcuni ordinamenti tra di loro, esiste questo fenomeno di relazione: non sempre si verifica una sovrapposizione esatta tra norme. Pensiamo al diritto canonico, nei suoi rapporti con lo Stato: non sempre, infatti, la norma canonica o la norma dell’ordinamento ecclesiale è in accordo perfetto con la norma positiva. Ma il punto è quando lo stesso Stato positivo, attraverso una equivoca “deregulation”, decide di smontare i suoi fondamenti per andare incontro ad esigenze di spesa. Ciò significa che non esiste un vero conflitto tra norme, bensì il conflitto è tutto interno allo Stato, è uno Stato che sceglie la via di una disarticolazione rivolta verso se stesso, un’operazione che consente in sostanza di mercificare alcuni principi su cui esso stesso si fonda, per mantenere l’equilibrio sociale esistente. Ha forse vita lunga uno Stato del genere?

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