Poniamo qualche punto fermo, fin dall’inizio, su una questione che
sorge nell’epoca contemporanea, perché solo oggi determinate visioni dell’uomo
vengono viste come “scoperte”. Le tradizioni filosofiche derivanti dal Taoismo
e dall’Induismo, per esempio, fornivano millenni addietro diverse prospettive
per leggere l’uomo in modo totale e organico. L’uomo si inseriva nell’ambito
delle “possibilità di esistenza”, fino alla formulazione completa della teoria dell’individuo
di mezzo/uomo di mezzo (cfr. René Guénon, 1965). Questo uomo “mediano”
rappresenterebbe la sintesi perfetta di anima, spirito e corpo in una forma di
manifestazione dell’essere che consente, in quelle filosofie, di raggiungere l’eterno.
La stessa idea, secondo cui ad ogni azione consegue una reazione, oltre ad
essere una legge della fisica, veniva trasposta in modo filosofico nel dominio
dell’antropologia e dello studio dell’essere umano, nel quale ogni azione umana
rappresentava uno stimolo o una risposta. Ma là, tutto questo, in quell’esperienza
filosofica e teologica era normalissimo. Rappresentava il binario ideale, su
cui muoversi: una filosofia dell’essere come insieme di espressioni del
Principio Universale, di cui l’uomo rappresentava il mezzo, e quindi
naturalmente il rispecchiarsi di una concezione esterna sulle considerazioni
relative all’interiorità dell’uomo e, dall’altra, l’idea di un equilibrio
cosmologico derivante da un continuo bilanciamento tra forze contrapposte.
In Occidente, invece, sembra che queste realtà, seppure rappresentate
non sempre in modo corretto anche in Oriente, vengano interpretate come “scoperte”
sensazionali. Verso la fine dell’Ottocento, infatti, serpeggia in Occidente un
malcontento filosofico che darà origine a quella parte del pensiero
tradizionale, che si rispecchia nel fenomeno del tradizionalismo universale
(dell’archeosofia o dell’idea di una rivelazione originaria primordiale, che
poi si è diffusa nel mondo intero tramite gli spostamenti migratori – cfr. René
Guénon, 1927). Laddove si propone, quindi, un concetto olistico di uomo e di
tradizione, facendo il verso al “superiore” Oriente filosofico. Diverso
discorso, invece, per le scienze psicologiche. Le esperienze “olistiche” e
uniformanti di determinate psicoterapie (si pensi alla “terapia centrata sul
paziente” di Rogers), rappresentano, per esempio, un tentativo di riscoprire
almeno formalmente ciò che in Oriente è stato concepito millenni addietro come
fondamento della persona: la natura organicistica dei rapporti all’interno dell’essere
umano tra le sue teoriche componenti, da non intendersi ovviamente come entità
separate. Il Medioevo cristiano fornisce un ampio supporto alla concezione
olistica, ma solo col differenziarsi delle discipline scientifiche, in epoca
moderna, si assiste alla necessità di leggere la realtà con approfondimenti
specifici su singoli aspetti, e quindi la conseguente necessità poi di
ricomporre il “sapere” umano in una dimensione unitaria, che parte inevitabilmente
dalla riscoperta di una concezione unitaria dell’essere e della persona. Ovviamente,
la cifra teorica che consente una lettura dei fenomeni che vada oltre le
singole epoche non può che essere l’uomo, con i suoi problemi, e a partire
dalla filosofia contemporanea (cfr. la fenomenologia di Husserl) la coscienza
intesa come luogo del conoscere psicologico e del valutare morale: cioè della
critica e dell’etica. E non solo. Ma quello che più colpisce, appunto, è che il
modo olistico di intendere l’essere umano dipende sempre dalla concezione che
si ha nel singolo momento storico, della conoscenza. Come quindi trascurare il
fatto che in Oriente l’approccio olistico, assolutamente fisiologico, era un
modo per conoscere, curare, meditare e rivivere? Come trascurare, al contrario,
il fatto che in Occidente questo approccio rappresenta più una “soluzione” alle
problematiche patologiche che si sono create concependo dapprima l’uomo come un
ente scomposto in particolari realtà ontologiche incomunicanti? Tutte le
discipline, pertanto, correvano il rischio da una parte di vivere un ruolo
isolato, nel contesto della conoscenza, dall’altra di andare alla deriva in un
delirio solipsistico-filosofico e gnoseologico senza fine. Tuttavia, l’esperienza
dimostra che sempre ad ogni fenomeno corrisponde, per un principio di contrappasso
naturale, una risposta di contrasto, perché l’uomo è in equilibrio perpetuo tra
istanze diverse ed è costituito da un meccanismo di autoregolazione, che si può
rintracciare in ogni aspetto della realtà e del mondo naturale e della sua
stessa fisiologia (cfr. gli esperimenti in materia di relativismo delle
sensazioni caldo-freddo). E dunque, possiamo provare ad abbozzare una prima
parziale risposta all’interrogativo iniziale, se cioè l’approccio olistico all’essere
umano possa rappresentare un dato di fatto, che riemerge dal di sotto delle
correnti ideologiche che soffocano l’essere, nel corso della storia, ovvero
invece possa originarsi da un tentativo artificiale di concepire soluzioni “più
umane” a distinzioni innaturali fondate sulla patologia. L’olismo è ormai
vissuto a tutti i livelli, e costituisce il fondamento dei nuovi approcci nelle
varie discipline umanistiche, quelle psicologiche e psicoterapeutiche, quelle
filosofiche, quelle scientifiche e quelle teologiche. E questo approccio
rappresenta anche la soluzione più filosoficamente economica, per fornire una
risposta alle domande dell’uomo. Anch’esso possiede, allo stesso tempo, alcuni
aspetti oscuri e inquietanti, come quelli che si manifestarono già negli anni
Settanta del secolo scorso negli Stati Uniti, al seguito di movimenti per la
promozione dell’autostima e del benessere psicofisico, derive di un pensiero connotato
da punti apprezzabili e che però non seppe auto-impostarsi in modo convincente.
Come tutti sanno, in definitiva, le librerie delle nostre città sono piene di
scaffali colmi, a loro volta, di libri sull’evoluzione personale, sulla
psicologia spiccia e divulgativa. Tutto materiale dozzinale, che però sembra
rispondere ad una esigenza-interrogativo: chi è oggi l’uomo e di che cosa ha
bisogno? Dall’evangelica “guarigione” olistica del Maestro Gesù, che coniugava
malattia fisica e disturbo ossessivo, magistralmente raccontata dall’evangelista-medico
Luca, fino all’approccio psicofisico e psicosomatico proposto da Freud, seppure
l’accostamento non sarebbe consentito se non in termini di narrazione
letteraria, si arriva all’idea che l’uomo, quando perde se stesso ricerca poi
se stesso attraverso un’impostazione organicistica, capace di leggere sintomi e
stimoli del malessere in modo organico e complessivo. Questa è, naturalmente,
la sfida contemporanea, concepire anche il sapere in questi termini, senza
creare artificiose distinzioni.
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