giovedì 19 dicembre 2013

La concezione olistica dell’essere umano è scoperta o invenzione?



Poniamo qualche punto fermo, fin dall’inizio, su una questione che sorge nell’epoca contemporanea, perché solo oggi determinate visioni dell’uomo vengono viste come “scoperte”. Le tradizioni filosofiche derivanti dal Taoismo e dall’Induismo, per esempio, fornivano millenni addietro diverse prospettive per leggere l’uomo in modo totale e organico. L’uomo si inseriva nell’ambito delle “possibilità di esistenza”, fino alla formulazione completa della teoria dell’individuo di mezzo/uomo di mezzo (cfr. René Guénon, 1965). Questo uomo “mediano” rappresenterebbe la sintesi perfetta di anima, spirito e corpo in una forma di manifestazione dell’essere che consente, in quelle filosofie, di raggiungere l’eterno. La stessa idea, secondo cui ad ogni azione consegue una reazione, oltre ad essere una legge della fisica, veniva trasposta in modo filosofico nel dominio dell’antropologia e dello studio dell’essere umano, nel quale ogni azione umana rappresentava uno stimolo o una risposta. Ma là, tutto questo, in quell’esperienza filosofica e teologica era normalissimo. Rappresentava il binario ideale, su cui muoversi: una filosofia dell’essere come insieme di espressioni del Principio Universale, di cui l’uomo rappresentava il mezzo, e quindi naturalmente il rispecchiarsi di una concezione esterna sulle considerazioni relative all’interiorità dell’uomo e, dall’altra, l’idea di un equilibrio cosmologico derivante da un continuo bilanciamento tra forze contrapposte.
In Occidente, invece, sembra che queste realtà, seppure rappresentate non sempre in modo corretto anche in Oriente, vengano interpretate come “scoperte” sensazionali. Verso la fine dell’Ottocento, infatti, serpeggia in Occidente un malcontento filosofico che darà origine a quella parte del pensiero tradizionale, che si rispecchia nel fenomeno del tradizionalismo universale (dell’archeosofia o dell’idea di una rivelazione originaria primordiale, che poi si è diffusa nel mondo intero tramite gli spostamenti migratori – cfr. René Guénon, 1927). Laddove si propone, quindi, un concetto olistico di uomo e di tradizione, facendo il verso al “superiore” Oriente filosofico. Diverso discorso, invece, per le scienze psicologiche. Le esperienze “olistiche” e uniformanti di determinate psicoterapie (si pensi alla “terapia centrata sul paziente” di Rogers), rappresentano, per esempio, un tentativo di riscoprire almeno formalmente ciò che in Oriente è stato concepito millenni addietro come fondamento della persona: la natura organicistica dei rapporti all’interno dell’essere umano tra le sue teoriche componenti, da non intendersi ovviamente come entità separate. Il Medioevo cristiano fornisce un ampio supporto alla concezione olistica, ma solo col differenziarsi delle discipline scientifiche, in epoca moderna, si assiste alla necessità di leggere la realtà con approfondimenti specifici su singoli aspetti, e quindi la conseguente necessità poi di ricomporre il “sapere” umano in una dimensione unitaria, che parte inevitabilmente dalla riscoperta di una concezione unitaria dell’essere e della persona. Ovviamente, la cifra teorica che consente una lettura dei fenomeni che vada oltre le singole epoche non può che essere l’uomo, con i suoi problemi, e a partire dalla filosofia contemporanea (cfr. la fenomenologia di Husserl) la coscienza intesa come luogo del conoscere psicologico e del valutare morale: cioè della critica e dell’etica. E non solo. Ma quello che più colpisce, appunto, è che il modo olistico di intendere l’essere umano dipende sempre dalla concezione che si ha nel singolo momento storico, della conoscenza. Come quindi trascurare il fatto che in Oriente l’approccio olistico, assolutamente fisiologico, era un modo per conoscere, curare, meditare e rivivere? Come trascurare, al contrario, il fatto che in Occidente questo approccio rappresenta più una “soluzione” alle problematiche patologiche che si sono create concependo dapprima l’uomo come un ente scomposto in particolari realtà ontologiche incomunicanti? Tutte le discipline, pertanto, correvano il rischio da una parte di vivere un ruolo isolato, nel contesto della conoscenza, dall’altra di andare alla deriva in un delirio solipsistico-filosofico e gnoseologico senza fine. Tuttavia, l’esperienza dimostra che sempre ad ogni fenomeno corrisponde, per un principio di contrappasso naturale, una risposta di contrasto, perché l’uomo è in equilibrio perpetuo tra istanze diverse ed è costituito da un meccanismo di autoregolazione, che si può rintracciare in ogni aspetto della realtà e del mondo naturale e della sua stessa fisiologia (cfr. gli esperimenti in materia di relativismo delle sensazioni caldo-freddo). E dunque, possiamo provare ad abbozzare una prima parziale risposta all’interrogativo iniziale, se cioè l’approccio olistico all’essere umano possa rappresentare un dato di fatto, che riemerge dal di sotto delle correnti ideologiche che soffocano l’essere, nel corso della storia, ovvero invece possa originarsi da un tentativo artificiale di concepire soluzioni “più umane” a distinzioni innaturali fondate sulla patologia. L’olismo è ormai vissuto a tutti i livelli, e costituisce il fondamento dei nuovi approcci nelle varie discipline umanistiche, quelle psicologiche e psicoterapeutiche, quelle filosofiche, quelle scientifiche e quelle teologiche. E questo approccio rappresenta anche la soluzione più filosoficamente economica, per fornire una risposta alle domande dell’uomo. Anch’esso possiede, allo stesso tempo, alcuni aspetti oscuri e inquietanti, come quelli che si manifestarono già negli anni Settanta del secolo scorso negli Stati Uniti, al seguito di movimenti per la promozione dell’autostima e del benessere psicofisico, derive di un pensiero connotato da punti apprezzabili e che però non seppe auto-impostarsi in modo convincente. Come tutti sanno, in definitiva, le librerie delle nostre città sono piene di scaffali colmi, a loro volta, di libri sull’evoluzione personale, sulla psicologia spiccia e divulgativa. Tutto materiale dozzinale, che però sembra rispondere ad una esigenza-interrogativo: chi è oggi l’uomo e di che cosa ha bisogno? Dall’evangelica “guarigione” olistica del Maestro Gesù, che coniugava malattia fisica e disturbo ossessivo, magistralmente raccontata dall’evangelista-medico Luca, fino all’approccio psicofisico e psicosomatico proposto da Freud, seppure l’accostamento non sarebbe consentito se non in termini di narrazione letteraria, si arriva all’idea che l’uomo, quando perde se stesso ricerca poi se stesso attraverso un’impostazione organicistica, capace di leggere sintomi e stimoli del malessere in modo organico e complessivo. Questa è, naturalmente, la sfida contemporanea, concepire anche il sapere in questi termini, senza creare artificiose distinzioni.


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