Intanto ci
poniamo un primo quesito: come e perché il male è un problema. Da millenni l’uomo
si interroga anzitutto su chi è e poi sul perché la sua esistenza è condotta
all’interno di un mondo caratterizzato moralmente. La connotazione morale
risiede nel fatto che da una parte esiste il Bene, che non può essere definito
in altro modo se non per quello che è e per il fatto di essere tale e non in
altro modo, dall’altra il male, che nella maggior parte dei casi l’uomo ha
considerato un’assenza. Il primo passo è quindi la “problematizzazione” del
male, il rendere questo argomento un problema, circostanza che discende
inevitabilmente dal fatto che ad esso si accompagna la sofferenza. Epicuro pose
un paradosso arcinoto, che però non convince nella sua formulazione base,
essendo probabilmente fondato su un equivoco. In effetti, c’è chi mette in
contraddizione l’onnipotenza di Dio con l’esistenza del male. Tommaso d’Aquino
cercò di risolvere la questione, invocando la “gloria” di Dio come parametro
decisivo per giustificare sia la salvezza delle anime, sia la loro eventuale
perdizione, ma c’è chi non fu convinto da questo argomento, anche se nel
Vangelo di Giovanni viene indicato in effetti come scopo dell’universo. La
storia occidentale concepisce il male come assenza di essere, almeno dai primi
Padri della Chiesa (pensiamo ad Origene). Tuttavia, qualcuno (cfr. Cacciari) ha
messo in discussione l’impostazione, mettendo in discussione anzitutto il
concetto di “essere”. La linguistica ha individuato alcune civiltà e alcune
lingue in cui non esiste questo verbo, e in Occidente è stato anche ritenuto un
verbo talmente generico, da assommare varie esperienze e fenomenologie (tra cui
il divenire, il nascere, il sussistere, l’esistere, il semplice essere). E
dunque, un primo problema legato al male non può che essere la discussione
sulla natura stessa di ciò che dovrebbe essergli contrapposto, cioè l’essere/bene.
Il Bene, tuttavia, nel cristianesimo occidentale, è Dio stesso, che è Bene
assoluto. Bisogna ragionare su questo fenomeno, secondo cui anzitutto si pone
un problema relativamente all’essere “morale” dell’uomo, in secondo luogo,
dimenticandosi della possibilità di definire il Bene, circostanza impossibile,
di definire il male e il motivo finale secondo cui la creazione è
caratterizzata da questo fattore di disturbo. Nella teologia molte sono le
risposte, ma nessuno può arrivare ad una conclusione definitiva. Ora, l’aspetto
su cui merita soffermarsi è proprio quello del paradosso di Epicuro. In esso si
contrappone una serie di caratteri presunti di Dio all’esistenza del male nel
mondo, considerando questi fattori come incompatibili dal punto di vista
logico. In questo senso, quindi, l’errore è rappresentato dal fatto che l’illogicità
di accettare una compresenza di questo tipo è definita sulla base di un
parametro di giudizio che neppure Epicuro può spiegare: perché esiste la logica
di un discorso, perché l’illogicità di un altro discorso, come mai la logica
dovrebbe prevalere nel terreno dei valori, come superiorità. Il problema,
quindi, non è mai stato risolto nemmeno problematizzandolo. Nel momento in cui
si sostiene che Dio non potrebbe essere onnipotente, in quanto se così fosse
avrebbe creato l’uomo senza la possibilità che egli peccasse e si allontanasse,
si compie l’errore di partire dal presupposto che Dio dovrebbe agire in modo “logico”,
senza peraltro spiegare come mai e il motivo, visto che non si parte da alcuna
connotazione morale. D’altronde, è evidente che nessun uomo, neppure un ateo
convinto, è in grado di definire il motivo per cui molte sue azioni sono “moralmente
connotate”, cioè tendono al Bene, cioè tendono a qualcosa che dovrebbe essere “un
più”, un “superiore”, un “positivo”. Chiunque voglia addentrarsi in questo
argomento della teodicea, finisce per trovare dei sinonimi semantici, ma aggira
solo l’ostacolo, perché non sa spiegare cos’è il Bene e conseguentemente perché
l’uomo è connotato dal Bene e perché quindi esiste il male, sia esso inteso
come assenza, come polo negativo, o in altro modo. Senza contare poi l’intera
tematica relativa all’evoluzione dell’uomo in una direzione sempre più
moralmente connotata, a partire dal problema della soglia umana e della
definizione di “progettualità”, fino ad arrivare all’uomo “religioso”. Ora,
sembra si possa dire che in mezzo, tra gli estremi, non ci sia propria nulla.
Tra l’onnipotenza di Dio e la libertà dell’uomo, non ci sono elementi
ulteriori, nel senso che coloro che sostengono che Dio non è onnipotente, perché
avrebbe potuto creare un uomo libero di sbagliare “senza incorrere” in alcuna
conseguenza negativa, errano. Forse si dovrebbe dire, invece, che così facendo
si concepisce un Dio “illogico”, capace di creare un uomo e poi contraddirsi
mentre lo crea così come lo ha concepito. Infatti, una prima parziale risposta
viene proprio da questo, che è poi l’argomento base di Tommaso d’Aquino: un
Dio, quindi, che non può creare in contraddizione con quanto ha voluto creare.
Se l’uomo è concepito libero, non può essere contestualmente anche schiavo. E
dunque, forse il carattere fondamentale è proprio la “logica” di Dio e della
creazione, che non può essere sacrificata nemmeno da Epicuro. Il cattolico e il
credente sanno che Dio non può contraddire ciò che sta volendo nell’attimo
creativo, ma dall’altra parte l’epicureo non può che fare riferimento alla
natura logica della creazione come parametro per dimostrare l’illogicità dell’onnipotenza
di Dio se messa in relazione con l’esistenza del male. Ma è proprio qui che
sembra annidarsi l’errore, perché anche l’epicureo finisce per usare la logica
aristotelica come parametro di giudizio della creazione, dimenticandosene
quando si tratta di capire se la “fonte primaria della logica”, che è Dio
stesso, può non servirsene durante l’atto creativo. Insomma, una tematica
complessa, certamente, che attraversa i secoli, ma che è inquinata
irrimediabilmente dal confuso modo di procedere di certi filosofi, i quali non
riescono ad avvalersi in modo logico della logica.
Questo sito rappresenta una piattaforma di discussione globale su temi filosofici e teologici, con particolare riguardo ai rapporti interdisciplinari tra le dottrine umanistiche.
venerdì 27 dicembre 2013
sabato 21 dicembre 2013
Motivazione e nessi causali: una storia
Oggi ci occupiamo di un argomento
piuttosto interessante, ma con risvolti inquietanti. Ci insegnano fin dalle
facoltà di legge che la sentenza è il provvedimento tipico del giudice, colui
che esercita il potere giudiziario. Ci insegnano anche che essa è caratterizzata
dalla motivazione, cioè dal ricollegare a certi fatti un percorso
logico-giuridico giustificativo della decisione. La decisione, cioè, che dirime
una controversia giudiziaria, viene assunta collegando ad una norma la premessa
minore di un sillogismo consistente sostanzialmente in un fatto storico. Questo
processo deduttivo, in buona sostanza, rende manifesto un meccanismo presente
in tutti gli ambiti della conoscenza. Fin dalla filosofia Scolastica, le
migliori teorizzazioni della logica aristotelica in ambito cristiano mettono in
luce una articolazione complessa di categorie, con le quali il logico si
cimenta e che servono a fondare il ragionamento discorsivo. In questi giorni,
tuttavia, apprendiamo dal Legislatore, il fantomatico “deus” che crea le leggi
e di cui bisogna interpretare le intenzioni che la motivazione, non è più
elemento necessario di una sentenza, ma è un elemento del tutto accessorio,
addirittura “a pagamento”. Ciò significa che la legalità prevale, pur
ritenendosi superata l’argomentazione kelseniana, sulla giustizia del caso
concreto. Se, infatti, postuliamo che per giustizia debba intendersi una
decisione “giusta” perché “motivata”, nel momento in cui il Legislatore opta
per una motivazione a pagamento, che viene espressa dal Magistrato
esclusivamente su richiesta e previo pagamento di un “contributo unificato”, ci
troviamo di fronte ad un ostacolo insormontabile: viene meno l’ordine
giudiziario, perché viene meno la sua funzione propria. Il dibattito sul diritto
positivo si riaccende e ancora una volta nella storia riemerge quella
dialettica tra diritto naturale e diritto positivo, tra legge e giustizia, che
si riteneva superata nella democrazia matura. Ma forse, è già un ossimoro
parlare di democrazia “matura”. Può infatti una democrazia avere uno stadio
infantile e poi, successivamente, un
percorso evolutivo? Si pensava di sì, ma gli ultimi drammatici approdi
del Legislatore mettono in dubbio tutto ciò. Come muoversi, quindi, in un
paradigma economicistico, il quale subordina tragicamente le esigenze di
giustizia a quelle di bilancio? E’ la giustizia "opzionale" in uno Stato moderno?
Sono domande che devono fare riflettere. In effetti, il problema di base è che
l’immobilismo della democrazia oligarchica crea situazioni di stallo talmente
consolidate, che neppure la minoranza organizzata di cui ci raccontava Gaetano
Mosca riesce a scalfirle. Si preferisce, invece, intaccare la legalità,
intaccare i principi fondamentali dello Stato di diritto, se questo comporta un
“risparmio di spesa”. Non si vorrebbe, però, che questo fosse il primo e
devastante approdo a cui conducono quelle filosofie basate sull’analisi
economica del diritto, sviluppatesi negli Stati Uniti e che comportano la
equivalenza tra scelta giusta e scelta “più economica”. Anche un bambino,
infatti, saprebbe dare la risposta di base: lo Stato che non motiva le sentenze
giudiziarie non è uno Stato di diritto, è solo un’organizzazione economica. Ma
tant’è. Proviamo a riflettere, però, sul percorso che ha fatto la comunità
occidentale nell’epoca moderna. Galileo non ha insegnato niente? Il
giusnaturalismo non ha lasciato alcun segno? Quello che conta sembra essere
solo che si invoca il meccanismo della “legalità formale” per giustificare ogni
scelta, anche quella antigiuridica. Beninteso, nel rapportarsi di alcuni
ordinamenti tra di loro, esiste questo fenomeno di relazione: non sempre si
verifica una sovrapposizione esatta tra norme. Pensiamo al diritto canonico, nei
suoi rapporti con lo Stato: non sempre, infatti, la norma canonica o la norma
dell’ordinamento ecclesiale è in accordo perfetto con la norma positiva. Ma il
punto è quando lo stesso Stato positivo, attraverso una equivoca “deregulation”,
decide di smontare i suoi fondamenti per andare incontro ad esigenze di spesa.
Ciò significa che non esiste un vero conflitto tra norme, bensì il conflitto è
tutto interno allo Stato, è uno Stato che sceglie la via di una
disarticolazione rivolta verso se stesso, un’operazione che consente in
sostanza di mercificare alcuni principi su cui esso stesso si fonda, per
mantenere l’equilibrio sociale esistente. Ha forse vita lunga uno Stato del
genere?
giovedì 19 dicembre 2013
La concezione olistica dell’essere umano è scoperta o invenzione?
Poniamo qualche punto fermo, fin dall’inizio, su una questione che
sorge nell’epoca contemporanea, perché solo oggi determinate visioni dell’uomo
vengono viste come “scoperte”. Le tradizioni filosofiche derivanti dal Taoismo
e dall’Induismo, per esempio, fornivano millenni addietro diverse prospettive
per leggere l’uomo in modo totale e organico. L’uomo si inseriva nell’ambito
delle “possibilità di esistenza”, fino alla formulazione completa della teoria dell’individuo
di mezzo/uomo di mezzo (cfr. René Guénon, 1965). Questo uomo “mediano”
rappresenterebbe la sintesi perfetta di anima, spirito e corpo in una forma di
manifestazione dell’essere che consente, in quelle filosofie, di raggiungere l’eterno.
La stessa idea, secondo cui ad ogni azione consegue una reazione, oltre ad
essere una legge della fisica, veniva trasposta in modo filosofico nel dominio
dell’antropologia e dello studio dell’essere umano, nel quale ogni azione umana
rappresentava uno stimolo o una risposta. Ma là, tutto questo, in quell’esperienza
filosofica e teologica era normalissimo. Rappresentava il binario ideale, su
cui muoversi: una filosofia dell’essere come insieme di espressioni del
Principio Universale, di cui l’uomo rappresentava il mezzo, e quindi
naturalmente il rispecchiarsi di una concezione esterna sulle considerazioni
relative all’interiorità dell’uomo e, dall’altra, l’idea di un equilibrio
cosmologico derivante da un continuo bilanciamento tra forze contrapposte.
In Occidente, invece, sembra che queste realtà, seppure rappresentate
non sempre in modo corretto anche in Oriente, vengano interpretate come “scoperte”
sensazionali. Verso la fine dell’Ottocento, infatti, serpeggia in Occidente un
malcontento filosofico che darà origine a quella parte del pensiero
tradizionale, che si rispecchia nel fenomeno del tradizionalismo universale
(dell’archeosofia o dell’idea di una rivelazione originaria primordiale, che
poi si è diffusa nel mondo intero tramite gli spostamenti migratori – cfr. René
Guénon, 1927). Laddove si propone, quindi, un concetto olistico di uomo e di
tradizione, facendo il verso al “superiore” Oriente filosofico. Diverso
discorso, invece, per le scienze psicologiche. Le esperienze “olistiche” e
uniformanti di determinate psicoterapie (si pensi alla “terapia centrata sul
paziente” di Rogers), rappresentano, per esempio, un tentativo di riscoprire
almeno formalmente ciò che in Oriente è stato concepito millenni addietro come
fondamento della persona: la natura organicistica dei rapporti all’interno dell’essere
umano tra le sue teoriche componenti, da non intendersi ovviamente come entità
separate. Il Medioevo cristiano fornisce un ampio supporto alla concezione
olistica, ma solo col differenziarsi delle discipline scientifiche, in epoca
moderna, si assiste alla necessità di leggere la realtà con approfondimenti
specifici su singoli aspetti, e quindi la conseguente necessità poi di
ricomporre il “sapere” umano in una dimensione unitaria, che parte inevitabilmente
dalla riscoperta di una concezione unitaria dell’essere e della persona. Ovviamente,
la cifra teorica che consente una lettura dei fenomeni che vada oltre le
singole epoche non può che essere l’uomo, con i suoi problemi, e a partire
dalla filosofia contemporanea (cfr. la fenomenologia di Husserl) la coscienza
intesa come luogo del conoscere psicologico e del valutare morale: cioè della
critica e dell’etica. E non solo. Ma quello che più colpisce, appunto, è che il
modo olistico di intendere l’essere umano dipende sempre dalla concezione che
si ha nel singolo momento storico, della conoscenza. Come quindi trascurare il
fatto che in Oriente l’approccio olistico, assolutamente fisiologico, era un
modo per conoscere, curare, meditare e rivivere? Come trascurare, al contrario,
il fatto che in Occidente questo approccio rappresenta più una “soluzione” alle
problematiche patologiche che si sono create concependo dapprima l’uomo come un
ente scomposto in particolari realtà ontologiche incomunicanti? Tutte le
discipline, pertanto, correvano il rischio da una parte di vivere un ruolo
isolato, nel contesto della conoscenza, dall’altra di andare alla deriva in un
delirio solipsistico-filosofico e gnoseologico senza fine. Tuttavia, l’esperienza
dimostra che sempre ad ogni fenomeno corrisponde, per un principio di contrappasso
naturale, una risposta di contrasto, perché l’uomo è in equilibrio perpetuo tra
istanze diverse ed è costituito da un meccanismo di autoregolazione, che si può
rintracciare in ogni aspetto della realtà e del mondo naturale e della sua
stessa fisiologia (cfr. gli esperimenti in materia di relativismo delle
sensazioni caldo-freddo). E dunque, possiamo provare ad abbozzare una prima
parziale risposta all’interrogativo iniziale, se cioè l’approccio olistico all’essere
umano possa rappresentare un dato di fatto, che riemerge dal di sotto delle
correnti ideologiche che soffocano l’essere, nel corso della storia, ovvero
invece possa originarsi da un tentativo artificiale di concepire soluzioni “più
umane” a distinzioni innaturali fondate sulla patologia. L’olismo è ormai
vissuto a tutti i livelli, e costituisce il fondamento dei nuovi approcci nelle
varie discipline umanistiche, quelle psicologiche e psicoterapeutiche, quelle
filosofiche, quelle scientifiche e quelle teologiche. E questo approccio
rappresenta anche la soluzione più filosoficamente economica, per fornire una
risposta alle domande dell’uomo. Anch’esso possiede, allo stesso tempo, alcuni
aspetti oscuri e inquietanti, come quelli che si manifestarono già negli anni
Settanta del secolo scorso negli Stati Uniti, al seguito di movimenti per la
promozione dell’autostima e del benessere psicofisico, derive di un pensiero connotato
da punti apprezzabili e che però non seppe auto-impostarsi in modo convincente.
Come tutti sanno, in definitiva, le librerie delle nostre città sono piene di
scaffali colmi, a loro volta, di libri sull’evoluzione personale, sulla
psicologia spiccia e divulgativa. Tutto materiale dozzinale, che però sembra
rispondere ad una esigenza-interrogativo: chi è oggi l’uomo e di che cosa ha
bisogno? Dall’evangelica “guarigione” olistica del Maestro Gesù, che coniugava
malattia fisica e disturbo ossessivo, magistralmente raccontata dall’evangelista-medico
Luca, fino all’approccio psicofisico e psicosomatico proposto da Freud, seppure
l’accostamento non sarebbe consentito se non in termini di narrazione
letteraria, si arriva all’idea che l’uomo, quando perde se stesso ricerca poi
se stesso attraverso un’impostazione organicistica, capace di leggere sintomi e
stimoli del malessere in modo organico e complessivo. Questa è, naturalmente,
la sfida contemporanea, concepire anche il sapere in questi termini, senza
creare artificiose distinzioni.
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