domenica 4 maggio 2014

Conoscere o credere in qualcosa?



Quasi tutti i pensatori e i movimenti culturali pongono all’uomo un obiettivo, che può essere storicamente individuato nella felicità, nella realizzazione, nella conoscenza, nella salvezza eterna, … . Oggi c’è da riflettere su un punto particolare: che cosa dobbiamo intendere per “conoscenza” salvifica. Con l’avvento del Cattolicesimo, il paradigma umano della teleologia e dell’escatologia si focalizzano e si strutturano sulla fede. “Chi crede ed è battezzato” si salverà. Nelle concezioni umane, non sempre si parte dal presupposto che l’uomo debba salvarsi, debba risorgere, debba possedere o sperimentare una vita eterna. Tuttavia, laddove il problema è sorto, è altamente necessario definire questo scopo salvifico. Credere in Qualcuno, in qualcosa oppure conoscere? Apparirebbe semplicemente contraddittorio pensare che la conoscenza in Tommaso d’Aquino possa essere paragonata in qualche modo alla conoscenza gnostica. Il Vangelo appare più in linea con una interpretazione del “cuore”. Non solo si salva chi conosce Dio, ma colui che crede nel Figlio, generato dal Padre e venuto nel mondo, come dice Giovanni, per far in modo che gli uomini vivano in eterno. Nella Scolastica si pone questa duplice interpretazione tra conoscenza salvifica (sulla base della circostanza che nell’uomo esistono facoltà superiori collegate con la conoscenza) e fede del cuore. Le parole non sono mai queste, per definirlo, ma sono quelle della teologia universitaria della Scolastica. Però, detto questo, appare importante verificare cos’è la conoscenza salvifica nello gnosticismo, altrimenti la linea di demarcazione si sfuma troppo. Nello gnosticismo ci si salva, o si vive, in virtù di una potenza propria e di un percorso di conoscenza individuale. Nel Cattolicesimo e nella filosofia e teologia tomistiche, questa conoscenza è invece il fine ultimo dell’essere umano. In effetti, Mt 6 ci conferma che “La lampada del corpo è l’occhio” e il risultato della conoscenza può essere alterato dall’interiorità dell’uomo, scavata dal peccato. Gesù conferma che è da dentro che viene il male, non da fuori. Dunque: l’alterazione cognitiva, l’alterazione conoscitiva e l’alterazione teleologica della conoscenza delle cose ultime può venire dall’uomo a causa del peccato e infangare il processo di santificazione. Nello gnosticismo, invece, tutto ciò è una paradossale risorsa, nel senso che invece è il mondo esteriore il regno delle tenebre e il mondo dell’ascesi individuale di natura esoterica quello della emancipazione dal mondo. Nello Gnosticismo è “l’anti-cosmismo” a farla da padrone (si vedano le riflessioni di Mezzetti, “Voi, chi dite che io sia?”, Ed. Elledici, 2007). Nel Cattolicesimo, conoscere Dio viene dall’adesione, però, ad un percorso di grazia santificante che viene dall’alto e non dal basso. E’ importante, quindi, il fatto che la definizione della provenienza e direzione dell’impulso salvifico, che porta l’uomo verso la salvezza, è capace di orientare in senso salvifico o satanico un’intera filosofia escatologica. Nel Corano “gli uomini di solida scienza” sono i credenti, la conoscenza di Dio non è solo metodologia salvifica, ma è anche il fine ultimo, per cui si può dire che l’obiettivo è la conoscenza del Dio Eterno, ma tuttavia il percorso per arrivare a tale conoscenza dipenderà dall’avere l’uomo risolto un problema presupposto, cioè se c’è omologia tra le tecniche umane di conoscere e la conoscenza intesa come fine e se le prime possano in qualche modo fare perseguire la seconda, cioè la conoscenza del Bene Eterno.

Approfondimenti: Voi chi dite che io sia?

sabato 3 maggio 2014

Vita o anche natura: l’essere umano tra finalismo e realtà attuale, tra essere ed essere “buono”




Una riflessione seria sull’essere umano prende spunto dal fatto che l’uomo, a differenza di qualunque altra creatura, sembra caratterizzato da un certo finalismo. La problematica della soglia umana (nel corso dell’evoluzione il momento esatto in cui si verifica un salto qualitativo per cui possiamo parlare di uomo) ne è la testimonianza (Uomo, Identità biologica e culturale, Fiorenzo Facchini): a quando fissare questo momento? Il finalismo e l’intelletto finalizzato dell’essere umano sembra presente in molte creature, ma mai a quel livello. Le esperienze di pre-morte garantiscono l’esistenza di una dimensione di coscienza superiore ed eterna. Ora, a fronte di tutto questo, la domanda che sorge spontanea è: perché l’uomo è l’unica creatura dotata di salto qualitativo? In altri articoli si è già detto che il concetto di “bene”, dall’ottica dell’uomo, non è altro che una definizione dell’essere non come mero sussistere, ma come un essere “qualificato”. In buona sostanza, l’uomo non solo “è” e quindi “esiste” qui ed ora, ma esiste per un fine buono e questa “bontà” è inspiegabile sia che sussista sia che sia la misura dell’uomo, a meno che non si parta dall’idea che l’uomo appunto è buono e quindi questa bontà sia increata e innata e costituisca la sua stessa natura. Ma a questo punto, se le altre creature non mostrano questa caratteristica, è evidente che il parametro di questa esistenza “buona” deve essere esterno all’essere umano e appartenere al trascendente. Alcuni grandi pensatori riecheggiano questo argomento. Secondo Pascal, l’uomo cerca sempre la felicità. Ora, a prescindere da cosa sia la felicità, resta inteso che essa è “positiva” e quindi “buona”. Nell’antico mondo giudaico, Dio apparteneva necessariamente alla dimensione della vita umana e con Lui si facevano i conti. Ma perché? Non tutte le creature lo fanno. Secondo Tommaso d’Aquino, ogni ente è buono (bonum est omne ens). Partendo dall’esperienza terrena, laddove noi individuiamo un essere, un’esistenza creaturale o anche non creaturale, solo nel caso di esseri intelligenti si pone altresì il problema dell’essere moralmente connotato. In altre parole, per un leone che uccide la gazzella, per quanto in modo astuto lo faccia, non si porrà il problema dell’essere “buono” del leone, ma solo della sua sopravvivenza. Nel discorso umano le cose cambiano perché l’uomo può “riflettere” su questa bontà, per cui è evidente che l’essere “buono” è collegato al poter pensare “bene” di qualcosa. Con questi piccolissimi e parziali spunti lanciamo l’argomento fondamentale dell’esistere, cioè la bontà morale intesa come carattere indelebile dell’essere.

Per approfondire: L'uomo e la soglia umana

venerdì 27 dicembre 2013

Il problema del male: il paradosso di Epicuro




Intanto ci poniamo un primo quesito: come e perché il male è un problema. Da millenni l’uomo si interroga anzitutto su chi è e poi sul perché la sua esistenza è condotta all’interno di un mondo caratterizzato moralmente. La connotazione morale risiede nel fatto che da una parte esiste il Bene, che non può essere definito in altro modo se non per quello che è e per il fatto di essere tale e non in altro modo, dall’altra il male, che nella maggior parte dei casi l’uomo ha considerato un’assenza. Il primo passo è quindi la “problematizzazione” del male, il rendere questo argomento un problema, circostanza che discende inevitabilmente dal fatto che ad esso si accompagna la sofferenza. Epicuro pose un paradosso arcinoto, che però non convince nella sua formulazione base, essendo probabilmente fondato su un equivoco. In effetti, c’è chi mette in contraddizione l’onnipotenza di Dio con l’esistenza del male. Tommaso d’Aquino cercò di risolvere la questione, invocando la “gloria” di Dio come parametro decisivo per giustificare sia la salvezza delle anime, sia la loro eventuale perdizione, ma c’è chi non fu convinto da questo argomento, anche se nel Vangelo di Giovanni viene indicato in effetti come scopo dell’universo. La storia occidentale concepisce il male come assenza di essere, almeno dai primi Padri della Chiesa (pensiamo ad Origene). Tuttavia, qualcuno (cfr. Cacciari) ha messo in discussione l’impostazione, mettendo in discussione anzitutto il concetto di “essere”. La linguistica ha individuato alcune civiltà e alcune lingue in cui non esiste questo verbo, e in Occidente è stato anche ritenuto un verbo talmente generico, da assommare varie esperienze e fenomenologie (tra cui il divenire, il nascere, il sussistere, l’esistere, il semplice essere). E dunque, un primo problema legato al male non può che essere la discussione sulla natura stessa di ciò che dovrebbe essergli contrapposto, cioè l’essere/bene. Il Bene, tuttavia, nel cristianesimo occidentale, è Dio stesso, che è Bene assoluto. Bisogna ragionare su questo fenomeno, secondo cui anzitutto si pone un problema relativamente all’essere “morale” dell’uomo, in secondo luogo, dimenticandosi della possibilità di definire il Bene, circostanza impossibile, di definire il male e il motivo finale secondo cui la creazione è caratterizzata da questo fattore di disturbo. Nella teologia molte sono le risposte, ma nessuno può arrivare ad una conclusione definitiva. Ora, l’aspetto su cui merita soffermarsi è proprio quello del paradosso di Epicuro. In esso si contrappone una serie di caratteri presunti di Dio all’esistenza del male nel mondo, considerando questi fattori come incompatibili dal punto di vista logico. In questo senso, quindi, l’errore è rappresentato dal fatto che l’illogicità di accettare una compresenza di questo tipo è definita sulla base di un parametro di giudizio che neppure Epicuro può spiegare: perché esiste la logica di un discorso, perché l’illogicità di un altro discorso, come mai la logica dovrebbe prevalere nel terreno dei valori, come superiorità. Il problema, quindi, non è mai stato risolto nemmeno problematizzandolo. Nel momento in cui si sostiene che Dio non potrebbe essere onnipotente, in quanto se così fosse avrebbe creato l’uomo senza la possibilità che egli peccasse e si allontanasse, si compie l’errore di partire dal presupposto che Dio dovrebbe agire in modo “logico”, senza peraltro spiegare come mai e il motivo, visto che non si parte da alcuna connotazione morale. D’altronde, è evidente che nessun uomo, neppure un ateo convinto, è in grado di definire il motivo per cui molte sue azioni sono “moralmente connotate”, cioè tendono al Bene, cioè tendono a qualcosa che dovrebbe essere “un più”, un “superiore”, un “positivo”. Chiunque voglia addentrarsi in questo argomento della teodicea, finisce per trovare dei sinonimi semantici, ma aggira solo l’ostacolo, perché non sa spiegare cos’è il Bene e conseguentemente perché l’uomo è connotato dal Bene e perché quindi esiste il male, sia esso inteso come assenza, come polo negativo, o in altro modo. Senza contare poi l’intera tematica relativa all’evoluzione dell’uomo in una direzione sempre più moralmente connotata, a partire dal problema della soglia umana e della definizione di “progettualità”, fino ad arrivare all’uomo “religioso”. Ora, sembra si possa dire che in mezzo, tra gli estremi, non ci sia propria nulla. Tra l’onnipotenza di Dio e la libertà dell’uomo, non ci sono elementi ulteriori, nel senso che coloro che sostengono che Dio non è onnipotente, perché avrebbe potuto creare un uomo libero di sbagliare “senza incorrere” in alcuna conseguenza negativa, errano. Forse si dovrebbe dire, invece, che così facendo si concepisce un Dio “illogico”, capace di creare un uomo e poi contraddirsi mentre lo crea così come lo ha concepito. Infatti, una prima parziale risposta viene proprio da questo, che è poi l’argomento base di Tommaso d’Aquino: un Dio, quindi, che non può creare in contraddizione con quanto ha voluto creare. Se l’uomo è concepito libero, non può essere contestualmente anche schiavo. E dunque, forse il carattere fondamentale è proprio la “logica” di Dio e della creazione, che non può essere sacrificata nemmeno da Epicuro. Il cattolico e il credente sanno che Dio non può contraddire ciò che sta volendo nell’attimo creativo, ma dall’altra parte l’epicureo non può che fare riferimento alla natura logica della creazione come parametro per dimostrare l’illogicità dell’onnipotenza di Dio se messa in relazione con l’esistenza del male. Ma è proprio qui che sembra annidarsi l’errore, perché anche l’epicureo finisce per usare la logica aristotelica come parametro di giudizio della creazione, dimenticandosene quando si tratta di capire se la “fonte primaria della logica”, che è Dio stesso, può non servirsene durante l’atto creativo. Insomma, una tematica complessa, certamente, che attraversa i secoli, ma che è inquinata irrimediabilmente dal confuso modo di procedere di certi filosofi, i quali non riescono ad avvalersi in modo logico della logica.

sabato 21 dicembre 2013

Motivazione e nessi causali: una storia





Oggi ci occupiamo di un argomento piuttosto interessante, ma con risvolti inquietanti. Ci insegnano fin dalle facoltà di legge che la sentenza è il provvedimento tipico del giudice, colui che esercita il potere giudiziario. Ci insegnano anche che essa è caratterizzata dalla motivazione, cioè dal ricollegare a certi fatti un percorso logico-giuridico giustificativo della decisione. La decisione, cioè, che dirime una controversia giudiziaria, viene assunta collegando ad una norma la premessa minore di un sillogismo consistente sostanzialmente in un fatto storico. Questo processo deduttivo, in buona sostanza, rende manifesto un meccanismo presente in tutti gli ambiti della conoscenza. Fin dalla filosofia Scolastica, le migliori teorizzazioni della logica aristotelica in ambito cristiano mettono in luce una articolazione complessa di categorie, con le quali il logico si cimenta e che servono a fondare il ragionamento discorsivo. In questi giorni, tuttavia, apprendiamo dal Legislatore, il fantomatico “deus” che crea le leggi e di cui bisogna interpretare le intenzioni che la motivazione, non è più elemento necessario di una sentenza, ma è un elemento del tutto accessorio, addirittura “a pagamento”. Ciò significa che la legalità prevale, pur ritenendosi superata l’argomentazione kelseniana, sulla giustizia del caso concreto. Se, infatti, postuliamo che per giustizia debba intendersi una decisione “giusta” perché “motivata”, nel momento in cui il Legislatore opta per una motivazione a pagamento, che viene espressa dal Magistrato esclusivamente su richiesta e previo pagamento di un “contributo unificato”, ci troviamo di fronte ad un ostacolo insormontabile: viene meno l’ordine giudiziario, perché viene meno la sua funzione propria. Il dibattito sul diritto positivo si riaccende e ancora una volta nella storia riemerge quella dialettica tra diritto naturale e diritto positivo, tra legge e giustizia, che si riteneva superata nella democrazia matura. Ma forse, è già un ossimoro parlare di democrazia “matura”. Può infatti una democrazia avere uno stadio infantile e poi, successivamente, un  percorso evolutivo? Si pensava di sì, ma gli ultimi drammatici approdi del Legislatore mettono in dubbio tutto ciò. Come muoversi, quindi, in un paradigma economicistico, il quale subordina tragicamente le esigenze di giustizia a quelle di bilancio? E’ la giustizia "opzionale" in uno Stato moderno? Sono domande che devono fare riflettere. In effetti, il problema di base è che l’immobilismo della democrazia oligarchica crea situazioni di stallo talmente consolidate, che neppure la minoranza organizzata di cui ci raccontava Gaetano Mosca riesce a scalfirle. Si preferisce, invece, intaccare la legalità, intaccare i principi fondamentali dello Stato di diritto, se questo comporta un “risparmio di spesa”. Non si vorrebbe, però, che questo fosse il primo e devastante approdo a cui conducono quelle filosofie basate sull’analisi economica del diritto, sviluppatesi negli Stati Uniti e che comportano la equivalenza tra scelta giusta e scelta “più economica”. Anche un bambino, infatti, saprebbe dare la risposta di base: lo Stato che non motiva le sentenze giudiziarie non è uno Stato di diritto, è solo un’organizzazione economica. Ma tant’è. Proviamo a riflettere, però, sul percorso che ha fatto la comunità occidentale nell’epoca moderna. Galileo non ha insegnato niente? Il giusnaturalismo non ha lasciato alcun segno? Quello che conta sembra essere solo che si invoca il meccanismo della “legalità formale” per giustificare ogni scelta, anche quella antigiuridica. Beninteso, nel rapportarsi di alcuni ordinamenti tra di loro, esiste questo fenomeno di relazione: non sempre si verifica una sovrapposizione esatta tra norme. Pensiamo al diritto canonico, nei suoi rapporti con lo Stato: non sempre, infatti, la norma canonica o la norma dell’ordinamento ecclesiale è in accordo perfetto con la norma positiva. Ma il punto è quando lo stesso Stato positivo, attraverso una equivoca “deregulation”, decide di smontare i suoi fondamenti per andare incontro ad esigenze di spesa. Ciò significa che non esiste un vero conflitto tra norme, bensì il conflitto è tutto interno allo Stato, è uno Stato che sceglie la via di una disarticolazione rivolta verso se stesso, un’operazione che consente in sostanza di mercificare alcuni principi su cui esso stesso si fonda, per mantenere l’equilibrio sociale esistente. Ha forse vita lunga uno Stato del genere?